Ciao!
Come stai? Per me i giorni scorsi sono stati particolarmente felici perché ho pubblicato per la prima volta un mio articolo su Il Tascabile, la rivista online di Treccani: ho affrontato un tema che mi stava a cuore, legato al modo in cui rappresentiamo e ci relazioniamo con gli animali. Spero vorrai leggerlo!
Torniamo a noi e al nostro appuntamento. Ho preso in prestito il titolo di questa newsletter da un tweet (sì, li chiamo ancora così) del naturalista e comunicatore Nicola Bressi. È un gioco di parole che cita un famoso film di Luca Guadagnino, tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman, Chiamami col tuo nome. Noi, però, stiamo parlando di elefanti e di uno studio pubblicato su Nature Ecology & Evolution in cui è stata esplorata la capacità di questi animali di usare dei nomi per chiamarsi, proprio come facciamo noi esseri umani.
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Come comunicano tra loro gli elefanti?
Qui su Foglie sparse è già capitato di sottolineare come gli animali sociali abbiano sviluppato modalità di comunicazione anche molto sofisticate. Da mammiferi sociali quali siamo, sappiamo bene quanto uno scambio di messaggi efficace aiuti la vita di gruppo.
Il sistema di comunicazione degli elefanti africani si basa su tutti i loro sensi: usano l'olfatto per percepire secrezioni emesse da altri individui; con la vista esaminano posture e comportamenti; con le orecchie, le zanne, le zampe, la coda e l'intero corpo, si toccano per scambiarsi messaggi in un gran numero di contesti diversi. Ad esempio, strofinano tra loro le orecchie affettuosamente o per gioco; con tutto il corpo spingono aggressivamente un altro elefante per allontanarlo o guidano una femmina verso un incontro, diciamo così, romantico.
Gli elefanti riescono persino a comunicare a distanza attraverso vibrazioni a bassa frequenza, originate dai loro borbottii, che altri compagni rilevano con le zampe.
Potremmo pensare alla comunicazione sismica come a un mix di quella tattile e quella acustica. Proprio per quanto riguarda quest’ultima, ci sono novità all’orizzonte.
Dare un nome
La comunicazione acustica negli elefanti africani (Loxodonta africana) prevede un vasto repertorio sonoro, che va da barriti, ruggiti, abbai, grugniti, a borbottii di frequenza molto bassa. La ricerca, pubblicata su Nature Ecology & Evolution, si è concentrata proprio su quest’ultimi segnali sonori per capire se questi mammiferi siano in grado di dare un’etichetta vocale — noi diremmo un nome — ai propri conspecifici.
Come riportato nell’articolo, un segno distintivo del linguaggio orale umano è l'uso di etichette vocali: suoni che abbiamo imparato e che si riferiscono a un oggetto o un individuo. Esistono animali non umani che adoperano segnali che si riferiscono alla presenza di cibo o richiami d’allarme differenti a seconda del predatore avvistato. La produzione di questi suoni è, però, innata. Diverso è apporre un’etichetta a un oggetto o dare un nome a un altro individuo: ciò implica apprendimento (non si può nascere conoscendo già i nomi dei membri del proprio gruppo) e una forma di pensiero simbolico.
Animali come il tursiope (Tursiops truncatus), un delfino, e il parrocchetto fronte arancio (Eupsittula canicularis), un pappagallo, si rivolgono ad altri individui della stessa specie imitandone il richiamo, la firma sonora del destinatario (immagina come sarebbe irritante e a tratti anche divertente se lo facessimo noi). Ancora una volta qualcosa di abbastanza differente rispetto al chiamare un preciso destinatario con un suono identificativo.
Trovare animali non umani che utilizzino i nomi come gli umani sarebbe di grande aiuto nella comprensione dell’evoluzione del linguaggio e delle capacità cognitive. Ed è qui che entrano in gioco gli elefanti africani.
Ascoltando gli elefanti
Come accennavo sopra, la comunicazione acustica degli elefanti è piuttosto ricca e ricercatrici e ricercatori della Colorado State University e delle organizzazioni Save the Elephants ed ElephantVoices hanno analizzato i brontolii dei gruppi di elefantesse con i propri cuccioli dell’Amboseli National Park e delle Samburu and Buffalo Spring National Reserves, in Kenya. Nel primo caso le registrazioni sono state effettuate tra il 1986 e il 1990 e il 1997 e il 2006, nel secondo tra novembre 2019 e marzo 2020 e giugno 2021 e aprile 2022. Tutte le popolazioni di elefanti sono state monitorate per decenni e tutti i membri sono stati identificati tramite la forma esterna delle orecchie.
I brontolii (rumbles) sono il richiamo più utilizzato dagli elefanti africani: sono suoni a bassa frequenza, ricchi dal punto di vista armonico e prodotti in molti contesti. Ci sono i brontolii di contatto, richiami a lunga distanza emessi quando l’animale è fuori dalla vista o lontano più di 50 metri dagli altri membri del suo gruppo e vuole riprendere contatto con loro; i brontolii di saluto, quando ci si avvicina tanto da potersi toccare; i brontolii di accudimento, emessi da una femmina adulta o adolescente mentre allatta, conforta o sveglia un cucciolo.
Scienziate e scienziati hanno esaminato i segnali sonori e applicato tecniche di machine learning su un totale di 469 vocalizzazioni, riferite ai contesti descritti sopra, alla ricerca di suoni adoperati come etichette vocali individuali.
Quali sono stati i risultati?
Chiamarsi per nome
Il gruppo di ricerca è riuscito a dimostrare che:
gli elefanti hanno dato un’etichetta vocale individuale ai propri conspecifici;
i “nomi” dati sono arbitrari e non imitano i richiami del destinatario (come per i tursiopi o i parrocchetti fronte arancio);
diversi elefanti hanno utilizzato la stessa etichetta per lo stesso destinatario (in particolare, i richiami di differenti mittenti e lo stesso destinatario sono più simili rispetto a richiami di differenti mittenti e differenti destinatari).
Nel video qui sopra è mostrato come, quando i ricercatori hanno riprodotto uno dei richiami registrati contenente l’etichetta vocale di un particolare elefante, quest’ultimo reagisse con un richiamo o avvicinandosi agli altoparlanti.
In realtà gli scienziati non sono riusciti a isolare un vero e proprio schema sonoro associabile a un nome. Questo perché i brontolii sono molto complessi e codificano un gran numero messaggi nello stesso momento, tra cui la propria identità, l’età, il sesso, lo stato emotivo e il contesto in cui sono emessi. In una vocalizzazione di un elefante ci sono molte più informazioni fornite simultaneamente rispetto a ciò che accade per noi Homo sapiens. La strada per riuscire a esaminare nel dettaglio i segnali acustici di questi animali è ancora lunga.
Comprendere meglio l’evoluzione del linguaggio e migliorare la conservazione
Ricercatrici e ricercatori ipotizzano che l’uso di nomi possa avere uno sviluppo comune: il comportamento sociale e l’ecologia degli elefanti danno origine a un ambiente in cui chiamarsi con un nome può essere un bel vantaggio. Sono animali che mantengono relazioni sociali che durano tutta la vita e le loro dinamiche spesso li portano a separarsi dagli individui con cui hanno rapporti stretti. Nei richiami di contatto, usare un nome permette di attirare l’attenzione di uno specifico destinatario, nei brontolii di saluto o in quelli di accudimento, un nome può rafforzare i legami. Accade anche a noi: se incontriamo un amico in un luogo affollato, lo chiamiamo affinché ci noti, quando abbiamo a che fare con bambine e bambini, cerchiamo di usare subito i loro nomi per riuscire a giocare insieme e per farli sentire riconosciuti.
George Wittemyer, coautore dell’articolo pubblicato su Nature Ecology & Evolution ha, infatti, commentato:
«Probabilmente è un caso in cui abbiamo pressioni simili, in gran parte derivanti da complesse interazioni sociali. Questa è una delle cose interessanti di questo studio, ci fornisce alcune informazioni sui possibili fattori che spiegano il motivo per cui abbiamo sviluppato queste capacità».
Oltre ad ampliare le nostre conoscenze sulle origini e sull’evoluzione del linguaggio, questo tipo di studi potrebbe fornire uno strumento per la conservazione degli elefanti africani, minacciati dal bracconaggio, dalla distruzione del loro habitat e dalla difficile coesistenza con le comunità umane, di cui purtroppo distruggono le proprietà e per cui, a volte, costituiscono un pericolo. Lo stesso Wittemyer si augura che un giorno si possa riuscire a comunicare con gli elefanti per proteggerli, ad esempio usando delle vocalizzazioni per metterli in guardia e tenerli lontani dai raccolti.
La speranza è, ancora una volta, quella di trovare il modo di comunicare attraverso dei suoni, una soluzione abbastanza congeniale per noi umani. Parola di Spielberg.
Qualcosa da…
… leggere
📰 Un articolo del New York Times dedicato alla ricerca sugli elefanti africani di cui abbiamo parlato.
📚 Se ricevi la mia newsletter da un po’ di tempo, sai che questo libro l’ho consigliato già tantissime volte. È Al di là delle parole (Adelphi, 2018), in cui Carl Safina, scrittore e biologo, racconta in maniera approfondita ed emozionante la vita degli elefanti del parco nazionale di Amboseli, in Kenya.
Ci rivediamo nella tua casella di posta elettronica tra due settimane.
Ti auguro di trascorrere una serena domenica!
Che bellissima puntata, Alessia! Queste ricerche sui linguaggi non umani mi entusiasmano un sacco: ora con gli elefanti e poco tempo fa con le balene.