Io so che tu sai che io so: parliamo di teoria della mente
[Foglie sparse #81] Lo facciamo con un ospite d'eccezione: il neuroscienziato Giorgio Vallortigara.
Ciao,
inizio con un piccolo test per te. Ci sono due bambine, Sally ed Anne. Sally nasconde un oggetto dentro una cesta e Anne può vederla mentre lo fa. A un certo punto Anne esce dalla stanza e Sally cambia la posizione dell'oggetto, conservandolo in una scatola. Dopo un po’ Anne rientra nella stanza. Secondo te dove cercherà l’oggetto? Nella cesta o nella scatola?
Probabilmente avrai risposto “Nella cesta!”: ti sei messa nei panni di Anne e sai che, non sapendo del cambio di posizione, cercherà l’oggetto dove ha visto riporlo quando era nella stanza. Quello che hai appena sostenuto è chiamato test della falsa credenza e viene utilizzato per verificare la presenza della teoria della mente, la capacità di capire e prevedere un comportamento sulla base della comprensione degli stati mentali (intenzioni, emozioni, desideri, credenze) propri e altrui. Questa abilità viene studiata anche negli animali.
Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta con l’aiuto di uno scienziato che sono felice e onorata di ospitare in questo nostro spazio: Giorgio Vallortigara, neuroscienziato di fama internazionale, direttore del Laboratorio di cognizione animale e neuroscienze e già direttore del Centro interdipartimentale Mente/Cervello (CiMeC) dell’Università di Trento e scrittore.
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Come nasce lo studio della teoria della mente?
Nasce intorno agli anni Ottanta1. Credo che a dividersi il merito ci siano diverse persone. Storicamente Nicholas Humphrey, Alison Jolly e David Premack, in maniera indipendente. Prima di tutto c'era questa idea, legata soprattutto al lavoro di Humphrey, che l'intelligenza della nostra specie — ma anche di altre — fosse essenzialmente di tipo sociale. In un famoso libro, Humphrey cita la storia di Robinson Crusoe: i problemi tecnologici che tanto ci colpiscono leggendo il romanzo, in realtà sono problemi semplici, che Robinson riesce ad affrontare. Le sue difficoltà vere emergono quando incontra Venerdì sull'isola.
E lì c'è stata un'intuizione secondo me geniale, cioè quella di capire che la complessità della vita di relazione in alcune specie è tale da porre problemi che sono perlomeno alla stessa altezza, e per molte specie più sofisticati, di quelli che si richiedono per risolvere problemi fisico-tecnologici.
Di fatto noi abbiamo creato una tecnologia avanzata rispetto alle altre specie di primati: loro pescano le termiti o attività simili, nulla di paragonabile a quel che è accaduto nella nostra specie. Quindi ci si può chiedere cosa se ne facciano di tutto quel cervello, di quella intelligenza che sembrano avere. Quel cervello gli serve essenzialmente per capire la vita mentale degli altri. Questa è stata l’intuizione: che una capacità fondamentale, quando si ha una ricca vita di relazione, è quella di attribuire agli altri stati mentali e usarli come se avessero un potere causale, cioè di dire "quell'individuo lì ha fatto quella cosa perché crede che, perché pensa che, perché desidera che".
Come è possibile misurare la teoria della mente, sia negli umani che negli animali?
La fase iniziale è stata quella della documentazione, cioè condurre esperimenti che dimostrassero inequivocabilmente che ci sono altre specie, oltre noi, che posseggono una teoria della mente. Ancora oggi ciò è oggetto di discussione, poiché questi esperimenti ammettono sempre interpretazioni alternative ed è difficile dimostrare questo tipo di capacità. C'è un esempio che ho usato molte volte nelle conferenze e si riferisce a una cosa che è un po' speciale per molti aspetti, cioè l'empatia2. Anni fa era uscito un lavoro sui ratti: mostrava un ratto prigioniero in una scatoletta e un suo compagno che se ne stava fuori e, dopo un po' di tempo, imparava ad azionare un chiavistello e a liberare il ratto confinato. Ciò è stato interpretato come un esempio di empatia: il ratto capisce lo stato spiacevole della vittima e agisce in maniera tale da liberarla. Qui, però, si possono immaginare spiegazioni alternative. Può darsi (anzi, quasi sicuramente lo fa) che il ratto che è dentro la scatoletta emetta degli ultrasuoni di stress, che questi siano disturbanti e che, quindi, il ratto che è fuori lo liberi semplicemente perché lo vuole zittire, non perché capisca veramente il suo stato mentale.
Ci sono esperimenti simili condotti sulle formiche. Esistono delle specie di formiche del deserto che, nel loro ambiente naturale, si trovano a essere mezze sepolte dal terriccio e le compagne le tirano fuori. Degli studiosi hanno pubblicato un lavoro sulle formiche, che era molto bello e molto ben controllato, in cui non veniva usato il termine “empatia”, ma il più neutro rescue behavior, comportamento di salvataggio, mentre invece i colleghi che avevano lavorato con i ratti usavano la parola “empatia”. E allora chiaramente qui c’è qualcosa che non va, no? Perché se i dati mostrano che lo stesso tipo di comportamento è osservato in una formica e in un ratto, con un'ipotesi su un costrutto come l'empatia, se ne dovrebbe concludere che quest’ultima è presente in entrambi i casi. Oppure si dichiara che non è un buon costrutto e possiamo trovare spiegazioni alternative, ma allora la spiegazione alternativa dovrà valere per la formica e anche per il ratto, non ci deve essere un trattamento di favore.
Il punto vero della faccenda è che abbiamo bisogno di esperimenti astuti per dimostrare queste capacità.
La questione non è semplicemente mostrare che un individuo aiuta una potenziale vittima, ma dimostrare che la aiuta o non la aiuta a seconda del riconoscimento del suo stato mentale, perché un conto è il comportamento manifesto e un altro è quello che tu senti, quello che chi guarda dall'esterno pensa che quella creatura senta o provi.
Un esempio un po' indecente è relativo al fatto che gli adulti della nostra specie, a volte, indulgono in comportamenti sessuali un po' bizzarri come farsi legare dal partner.
Entri in una stanza e vedi una ragazza o un ragazzo completamente legato e imbavagliato che geme. In condizioni normali, ti comporterai come il ratto dell'esperimento, andrai lì e soccorrerai la vittima, perché penserai che lei o lui stia soffrendo, pensi che possegga quello stato mentale. Però immaginiamo che le informazioni contestuali siano diverse, che tu sai che quella ragazza o quel ragazzo, in realtà, si stanno dedicando a quel tipo di pratica e saranno contenti di farlo. Quindi ti astieni dall'andare in aiuto e non lo farai per sempre, ma solo in quelle circostanze. Questa è vera teoria della mente perché, a parità di comportamento esterno, riconoscerai l'uno o l'altro stato mentale sulla base delle informazioni di contesto. Questo tipo di esperimento è difficile da progettare nelle specie non umane. Però non è impossibile.
E per gli esseri umani, quali tipologie di test esistono oltre a quello di Sally ed Anne?
Per la nostra specie ci sono dei test standardizzati, che hanno sviluppato gli psicologi che si occupano di questi temi. Un esempio è quello in cui si mostrano alle persone delle fotografie in cui si vede soltanto un paio d'occhi e bisogna capire che cosa il soggetto stia provando, stia sentendo, riconoscerne quindi lo stato mentale. Ci sono persone che sono molto brave in questo tipo di lettura e altre meno, ed esistono differenze relative ai due sessi, documentate nella nostra specie. Recentemente Simon Baron-Cohen ha pubblicato un lavoro con un numero strepitoso di soggetti esaminati, credo più di 60.000, e ha mostrato che le femmine della nostra specie mediamente surclassano di gran lunga i maschi.
Il test di Sally ed Anne può essere utilizzato anche per gli animali?
Esperimenti simili sono stati svolti sugli scimpanzè, utilizzando la tecnica della registrazione dello sguardo. Lo scimpanzé osserva una stanza in cui ci sono un operatore umano e un attore vestito da scimmia che nasconde un oggetto in un luogo e poi, mentre l’operatore non lo vede, lo sposta da un’altra parte. Quando l’umano rientra nella stanza, lo sguardo dello scimpanzé è diretto nel luogo in cui l’uomo ha visto nascondere l’oggetto e non dove l’attore travestito lo ha poi spostato.
Questo è, al momento, forse, uno degli esperimenti più convincenti a favore del fatto che perlomeno gli scimpanzè3 posseggano una teoria della mente. Ci sono evidenze similari anche nei corvidi.
Evolutivamente che senso ha la teoria della mente? A cosa è servita?
La teoria della mente serve quando vivi in un ambiente sociale complicato, quando cioè l'interpretazione del comportamento degli altri non è basato su automatismi semplici, ma sulla ascrizione di stati che non sono direttamente visibili, sono puramente ipotizzati, e che quindi rendono possibile le forme sofisticate, per esempio, di inganno intenzionale.
Esistono delle forme di inganno nel mondo naturale che sono inconsapevoli, che non richiedono che chi le mette in opera sia cosciente in qualche modo di ingannare: le macchie sulle ali delle falene4 oppure anche certi repertori che sono un po' a metà strada. Ciò accade, ad esempio, in uccelli come i pivieri: quando si avvicina un predatore, la mamma comincia a muoversi saltellando, come se avesse un'ala spezzata, per distrarre l'attenzione dal nido. I predatori sono molto selettivi, per risparmiare energia tendono ad attaccare gli individui giovani, malati o feriti. Quindi, in questa maniera, lei distrae l'attenzione, lo porta lontano dal nido, e quando il predatore si avvicina per prenderla, vola via. Di trucchi di questo tipo ce ne sono tanti nel mondo naturale, però sono in un certo senso predisposti, automatici.
Più rari sono quei casi in cui nell'inganno riconosciamo un’intenzione, quindi la comprensione dello stato mentale dell'altro. Casi convincenti sono stati descritti soltanto nelle grandi scimmie antropomorfe. C'è un po' di documentazione per quanto riguarda gli animali domestici, ma è molto aneddotica, difficile da controllare, ed è legata ovviamente al fatto che questi sono animali che vivono in interazione diretta con noi e i loro comportamenti, molto spesso, si prestano a interpretazioni diverse.
C'è qualcosa di cui molti di noi hanno avuto esperienza: ti siedi sulla poltrona che il tuo cane, la sera, ama andare a occupare. Allora lui comincia a girare attorno, così vede che non c'è verso, non ti alzi. A un certo momento si dirige verso la porta e comincia a guaire e a fare tutta la mimica del “portami fuori, portami a spasso”. Tu sbuffi, ti alzi per andare ad aprire la porta e lui, tac, corre indietro e va a occupare la poltrona.
È facile in queste circostanze esclamare "Mi ha ingannato!", cioè ha fatto quella cosa lì perché mi voleva imbrogliare per liberare la poltrona. Però c'è un'interpretazione più semplice, che è quella di immaginare che, come accade un po' a tutti noi, ci sia una gerarchia di scopi, di obiettivi, che sono messi appunto in ordine di importanza. Quindi, in quel momento, l'obiettivo più importante per il cane era andare a occupare la poltrona, in subordine andare fuori a fare una passeggiata. Siccome la poltrona è occupata, si dirige all'obiettivo 2. E quindi non c'è stato alcun inganno intenzionale, semplicemente è la persona che legge il comportamento del cane come un tentativo di inganno intenzionale, che magari non c'era dal punto di vista dell'animale.
Ci sono altri animali che possiamo sospettare abbiano la teoria della mente?
Il sospetto riguarda tutti quegli animali che hanno una vita sociale abbastanza complicata, in cui c'è un ranking order, una gerarchia sociale e c'è il riconoscimento individuale. In tutti gli ambiti che richiedono aspetti di altruismo e di cooperazione nel comportamento, c’è la necessità di tenere a mente le caratteristiche di quell'individuo, del suo comportamento, su tempi abbastanza lunghi, e sei aperto al rischio dell'imbroglio e della non reciprocità. Davanti a queste condizioni, ovviamente, è importante riconoscere o attribuire stati mentali perché, per esempio, puoi allontanare i free riders, gli imbroglioni, tenerli lontani dal gruppo, punirli in qualche modo, fisicamente o, come facciamo noi di fatto, attraverso quella che viene chiamata reputazione. La reputazione ha esattamente a che fare con questo: nessuno ti punisce fisicamente, ma se tu a un certo momento vieni riconosciuto nel tuo gruppo come uno che non mantiene la parola o come una persona che inganna o che mente, ne derivano delle conseguenze spiacevoli per la tua vita di relazione. E questo riconoscimento è basato essenzialmente non tanto sul comportamento esplicito, ma su quello che si suppone che sia nei tuoi stati mentali.
Nel suo libro “Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze” scrive che la passione dell’essere umano per le storie sarebbe legata proprio alla teoria della mente. In quale modo lo è?
Questa è una cosa che tra l'altro mi è capitato di riprendere in mano, anche se non direttamente, in anni molto recenti perché ho conosciuto un collega qui a Trento che si occupa professionalmente proprio di questo e che ha scritto dei lavori molto interessanti che hanno a che fare con un mio grande amore: la letteratura.
La narrazione, scrivere storie, è naturalmente connesso con la teoria della mente.
Lui si è chiesto se ci sia una differenza tra quella che chiamiamo letteratura di qualità, alta per capirci, e quella che viene classificata come letteratura di intrattenimento5 nel migliorare in noi la capacità di comprendere gli stati mentali altrui. I risultati sono stati pubblicati su Science un po' di anni fa. Nel primo caso si osservava una miglioramento significativo nei test di teoria della mente, cioè sembra che leggere Tolstoj o Proust produca un effetto diretto e misurabile, cosa non così sorprendente. Quello che è interessante è chiedersi cosa ci sia di speciale nelle storie di qualità. Paradossalmente la risposta è che la narrativa di qualità non ti dice tutto e, quando racconta una storia, lascia al lettore un ruolo squisitamente attivo. In un romanzo, diciamo così, di bassa lega, si legge una frase esplicita del tipo “Johnny era triste perché gli era morto il gatto”; un grande scrittore invece scrive "Johnny si allontanò con le spalle curve": devi fare tu del lavoro per trovarci la tristezza o le altre caratteristiche mentali. Questo mostra, per l'appunto, come la nostra passione per le storie sia radicata, in un certo senso, nella nostra costituzione biologica, nel modo in cui funziona il nostro cervello. Non potrebbe essere diversamente.
Esiste, però, un’altra faccia della medaglia…
Ho scritto una volta un breve pezzo su un giornale, motivato dalla lettura del libro di un'amica, Daria Bignardi, intitolato I libri che mi hanno rovinato la vita. Mi aveva molto incuriosito perché è una cosa a cui spesso non pensiamo. Tutti noi educhiamo i nostri ragazzi alla lettura perché crediamo che abbia dei vantaggi, ma non abbiamo mai riflettuto sulla possibilità che davvero i libri possano far male. In che senso? Se le capacità di teoria della mente di un individuo vengono affinate tantissimo, è possibile ottenere degli esiti positivi, molto positivi, in termini di relazioni sociali: leggere buoni libri, capire gli stati mentali degli altri, aiuta a essere democratici, progressisti, aperti, ma, nello stesso tempo, può porre dei problemi. Si diventa assai sensibili alle forme di ipocrisia sociale, cioè al fatto che continuamente le persone dicono delle cose che non sono quelle che veramente pensano. In alcuni ambiti, gran parte della comunicazione linguistica è falsa, riconosciuta come tale, e tutti ovviamente aderiscono alle regole del gioco. Però, se si è molto fini nel riconoscimento di questa falsità, di questa ipocrisia, si rischia di viverla male. E non solo.
I buoni libri e la complessità nella teoria della mente non necessariamente facilitano le vite individuali: le aiutano da un punto di vista politico, sociale, civico e civile, ma possono renderle difficili dal punto di vista psicologico.
I buoni libri non sono mai consolatori. Noi ci portiamo dietro delle pene, che probabilmente altre creature non hanno, per esempio quella relativa alla nostra finitudine. I grandi della letteratura ti mettono di fronte alla realtà, ti dicono che il mondo non ha senso, l'universo non ha senso e non ha significato, che noi siamo qui, in un granellino sputato di un piccolo pianeta nell'universo, e che ti devi arrangiare, devi trovare tu lo scopo e il significato della vita.
Qualcosa da…
… leggere
📚 Non posso che consigliarti il libro di Giorgio Vallortigara citato nell’intervista, Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze (Bollati Boringhieri, 2005).
… guardare
📹 Perché ci accorgiamo di esistere? Lo spiega Giorgio Vallortigara in questa video-intervista di Lucy. Sulla cultura.
Newsletter intensa oggi, vero? 🙂 Ringrazio ancora il mio ospite per questa intervista.
Ci rivediamo tra due settimane nella tua casella di posta elettronica.
A presto!
Il termine è entrato per la prima volta nella letteratura scientifica dopo essere stato applicato ai primati non umani in un articolo di David Premack e Guy Woodruff intitolato Does the chimpanzee have a theory of mind? (Lo scimpanzé ha una teoria della mente?), pubblicato nel 1978.
C’è differenza tra teoria della mente ed empatia. È possibile riconoscere gli stati mentali degli altri in una maniera astratta ed esterna, puramente razionale, cognitiva. Questa è la teoria della mente. Mentre nell'empatia propriamente detta c'è l’aspetto del sentire su di sé quello che tu pensi stia provando l'altro, ad esempio il dolore che provi quando vedi qualcuno piangere o quando qualcuno si fa male.
E, come mostrato nel video, anche altre grandi scimmie.
Sono forme di mimetismo: le macchie sulle ali inducono la fuga in un possibile predatore perché somigliano agli occhi di uccelli come gufi e civette.
Con opere d’intrattenimento si intendono, in questo caso, opere che non sono di narrativa o appartengono alla narrativa popolare.